Eleonora Duse è l’attrice simbolo del teatro italiano tra Otto e Novecento. Su di lei moltissimo è stato scritto, sia sul versante artistico che su quello biografico. Ma alcuni aspetti ancora inediti della sua personalità si possono scoprire ora attraverso Ma Pupa, Henriette, il bel libro edito da Marsilio e curato da Maria Ida Biggi dove sono riunite le lettere scritte dalla Duse alla figlia Enrichetta – nata nel 1882 dal poco fortunato matrimonio con Tebaldo Checchi – nel lungo periodo di anni che va dal 1892 al 1924, anno della morte dell’attrice. Attraverso questo nutrito corpus epistolare è possibile farsi un’idea più precisa dei gusti e delle opinioni, ma anche delle insicurezze e delle debolezze di questa mitica interprete figlia di teatranti e nata per caso in un albergo di Vigevano durante una tournée della madre.
La stessa curatrice, nella sua introduzione, spiega quali materiali raccoglie il volume: «Il carteggio, scritto solo parzialmente in italiano e per la maggior parte in francese, è formato da due nuclei fondamentali: da un lato le vere missive, autentiche, autografe di Eleonora, e dall’altro i cosiddetti “Quaderni di Enrichetta”, che contengono copie manoscritte delle lettere che la madre ha inviato alla figlia durante gli anni dal 1914 al 1918. Le carte autografe autentiche, conservate nell’Archivio Duse della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, sono circa ottanta pezzi, alcuni dei quali formati da più fogli, altri costituiti semplicemente da biglietti, cartoline illustrate e telegrammi. La trascrizione delle lettere fatta da Enrichetta nei quaderni dà luogo a una testimonianza viva della vita e delle difficoltà finanziarie e psicologiche incontrate durante i lunghi anni della prima guerra mondiale e nel periodo immediatamente successivo. Queste copie devono essere filtrate attraverso gli occhi, o meglio le mani, della figlia che è sopravvissuta alla madre per quasi quarant’anni con la costante preoccupazione di mutare e occultare l’immagine pubblica dell’attrice, distruggendone o manomettendone molte testimonianze». Tra i documenti più interessanti – oltre ai riferimenti all’unica esperienza cinematografica, Cenere, lungometraggio ricavato nel 1916 dall’omonimo romanzo di Grazia Deledda – ci sono quelli che mettono in luce la vocazione e l’abilità letteraria dell’attrice, già evidenziate peraltro molti anni fa da Vittore Branca. Un epistolario appassionante che racconta l’Italia di ieri attraverso gli occhi di una protagonista assoluta
(Fonte: L. Mello)